Recensioni

“Fire and Fury” (Fuoco e furia), Michael Wolff (2017)

serveimageIn uno degli ultimi post avevo promesso una recensione de “La stanza profonda” di Vanni Santoni. Tranquilli, non l’ho dimenticato: è tra le bozze di questo blog. Se non l’ho ancora pubblicato, è perché ho deciso che parlerò di “Fire and Fury”, di prossima pubblicazione per Rizzoli – save the date, 13 febbraio 2018 – col titolo “Fuoco e furia”.

So benissimo che mi addentrerò in un ginepraio particolarmente odioso. A pochi piace leggere e discutere di politica nazionale, figurarsi quella internazionale; sento già gli echi delle rimostranze di alcuni di voi che non vorranno leggere o sentir parlare di politica nei blog dedicati alla letteratura. Le comprendo benissimo perché, al giorno d’oggi, siamo abituati a una politica fatta di urla, slogan e atteggiamenti contrastivi. Vorrei solo permettermi di ricordare da quale definizione di “politica” mutuo il mio interesse verso il libro di Michael Wolff: quella di Aristotele.

L’uomo è un animale politico, capace per natura di formare comunità. L’amministrazione di queste comunità rientra – o perlomeno, dovrebbe rientrare – in quell’ottica di bene per tutti. Tutti i cittadini sono chiamati a partecipare proprio per gestire e capire cosa sia il bene per loro e in che modo destinarlo a loro. Un buon motivo per cui leggere il libro di Wolff è tutto qui: avere la curiosità di leggere un libro con l’intenzione di ricavare un bene per il prossimo, anche nella vita quotidiana.

Negli Stati Uniti c’è stato un gran parlare di questo libro, specialmente per il motivo principale, l’aver infastidito Trump (e sto usando un eufemismo). L’imbarazzo del multimilionario diventato presidente è stato una grande pubblicità insperata, ha creato molte aspettative intorno all’opera di Michael Wolff, addirittura ingigantendone la sua importanza. Per quel che riguarda la sostanza del libro, una piccola ma consistente fetta di queste aspettative resta comunque confermata. I dubbi e le perplessità intorno alla figura del presidente Donald J. Trump sono confermati e ne aggiunge di nuovi. Michael Wolff segna su carta la figura del tycoon senza renderlo né vittorioso né perdente. Un’ambivalenza, questa, che ha infastidito quell’uomo circondato da yes man, attento a mantenere un’aura di mito che dovrebbe offuscare le macchie del suo passato e le goffaggini del presente.

“Fuoco e furia” punta i riflettori anche sull’entourage di Trump. Troviamo il cinismo misantropo di Bannon, l’arrivismo di Jared e Ivanka, la solitudine di Melania. Ogni elemento scelto da Trump è rappresentato senza sconti e alcuni di essi alimentano l’impressione di trovarsi di fronte a una forte decadenza di stampo americano. In tutto questo, Trump è a tratti marionetta, a tratti perno cruciale dei desideri mai domati di chi lo circonda, ma pur sempre un individuo in cerca di approvazione. Penso che una delle immagini che rappresentano al meglio la solitudine di un uomo potente sia questa: Donald Trump solo, in una stanza con tre televisori accesi, intento a mangiare un hamburger di McDonald’s e a telefonare alla persona che gli concede l’attenzione del momento.

Trump non è però l’unico a finire sotto la lente dell’inchiesta. Il contesto trumpista consente di mostrare soprattutto i punti deboli dei suoi avversari, in particolare i democratici americani. In confronto a una certa immobilità Dem, Donald J. Trump è stato soprattutto un uomo d’azione: ha twittato regolarmente con frasi a effetto, ha chiamato spontaneamente radio e salotti televisivi diventando anche presenza fissa di uno in particolare; ha organizzato rally politici a pochissima distanza gli uni dagli altri, attirando regolarmente decine di migliaia di interessati. È stata una strategia che a lungo termine ha avuto successo e uno dei fattori che ha attituto la perdita di voti dopo lo scandalo Access Hollywood. Per contro i Dem, anziché adottare una strategia simile e assicurare un buon successo a un candidato terribile come Hillary Clinton, ha bollato tutto come demagogia di stampo autoritario, per loro ampiamente screditata e appartenuta a un certo periodo tabù. Questa cecità ha inficiato notevolmente la loro capacità di giudizio e ha portato ai risultati che conosciamo.

Wolff non risparmia neanche la stampa americana di tipo liberal, che ha accolto con orrore l’elezione di Donald Trump e ha fatto di tutto per montare il sentimento anti-Trump e adoperare ogni occasione per screditarlo. (Un compito che non risulterà difficile a chi leggerà il libro, considerate le gaffe del personaggio). I continui attacchi alla presidenza e la tendenza dello staff di quest’ultima a difendere le stravaganze retoriche non fattuali del tycoon americano come “fatti altenativi” hanno creato un mondo diviso a metà, reminescente della Guerra Fredda: da un lato la realtà di Trump, dall’altra la realtà dei mass media. Nel mezzo, il popolo americano tirato ai due capi come una fune.

Una delle critiche mosse al libro, in particolare dai repubblicani, è che si tratta di sentito dire, di chiacchiere. Wolff è il primo ad ammettere di aver avuto a che fare con questa dimensione delle notizie, ma assicura di aver fatto il possibile per accertarsi quali fossero sciocchezze e quali no. Il risultato è un resoconto verosimile, caustico nella presentazione ma umano nel contenuto, che ben riflette la sciatteria verbale di un personaggio costruitosi nel corso degli anni tra dicerie e gesti epocali, dapprima considerato nulla più di una macchietta per giornali di gossip e ora, improvvisamente, chiamato a rappresentare il popolo degli Stati Uniti.

Penso di dire senza troppi rimorsi che non si tratta certo di un libro-chiave, né di un capolavoro per le ere a venire. Per chi conosce il mondo di Trump, in positivo o in negativo, non rappresenta certo una novità; anzi, per qualcuno sarà solo la conferma dei propri pregiudizi. Ciononostante, lo consiglio caldamente: è un buon modo per iniziare, farsi un’idea delle intenzioni dietro i comportamenti di Trump e comprendere in qualche modo le dinamiche esterne al suo mondo.

Bartleby

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